Lo stupore di Betlemme torna ad interrogarci con il suo carico di suggestioni, di ricordi, di verità e di domande che si aggrovigliano nella fragilità del nostro cuore, incapace di dare dimensioni umane, alla sconfinatezza dell’evento. Un Dio - neonato, perché? Da una parte Dio, e qui ci fermiamo. Dall’altro un neonato, presenza reale, diretta, di cui tutto abbiamo esperienza. L’esistenza del neonato, che ha bisogno di tutto l’amore dei suoi genitori senza esserne consapevole, non potrebbe rimandare, fatte le debite differenze, alla condizione di noi tutti, accompagnati e sostenuti da un Amore che, nel silenzio e nel rispetto, offre ragioni di senso e di speranza che spesso ignoriamo, sottovalutiamo, rifiutiamo, di cui, molti adulti come neonati, non siamo pienamente consapevoli. Forse è davvero il caso di chiedercelo in questa stagione della storia in cui le radici delle nostre convinzioni sulla generazione, sull’amore e sulla famiglia appaiono sconvolte da un turbine di idee confuse, che occupano e disorientano. Tutto sembra concorrere a dimostrare che la cultura della vita vada incrinandosi e corrompendosi. Gli ultimi dati sulla natalità e fecondità, usciti proprio pochi giorni fa, parlano di una nuova flessione del numero di nascite: 12mila bambini in meno rispetto allo scorso anno. Un dato che va di pari passo con il crollo dei matrimoni, anche se le stesse statistiche ci dicono che sono in aumento i nati da coppie non sposate. Ma lo scoglio non è rappresentato da queste nascite, se è vero che anche tra coloro che arrivano ai percorsi di preparazione al matrimonio, otto su dieci sono già conviventi e spesso già genitori. Anzi, molto spesso è proprio la nascita di un figlio che induce i “fidanzati” a guardarsi dentro, a cercare nuove ragioni al proprio “stare insieme”. Il problema però non sono le convivenze – come emerso anche al Sinodo – non sono cioè i fidanzati “che corrono troppo”, bensì i fidanzati che non ci sono. L’aumento dei cosiddetti “lat” – living apart togheter – di coloro cioè che decidono di volersi bene, ma solo un po’, rimanendo ciascuno a casa propria e continuando a gestire la propria indipendenza, ci parla di una tendenza che sembrerebbe allontanare ancora di più l’obiettivo dell’amore per sempre, dell’amore che costruisce futuro. Verso la famiglia, verso l’amore, verso la sessualità esistono atteggiamenti profondamente mutati che non possiamo più né minimizzare né liquidare come scorretti, dimenticando accoglienza e fraternità. La persistenza della famiglia, nella forma tradizionale ispirata alla tradizione cattolica, viene considerata una gravissima anomalia, anzi uno degli ostacoli principali alla modernizzazione del nostro Paese e al suo pieno inserimento nel nuovo contesto globale. La riforma della famiglia, a livello sociale, culturale e giuridico, sarebbe dunque condizione necessaria per il pieno accesso alla mondializzazione, infatti in questi giorni politicamente si sostiene che La famiglia tradizionale dovrebbe trasformarsi, adattandosi alle esigenze della nuova situazione globale dell’economia. Le nuove famiglie “globali”, transnazionali e multietniche, pongono poi il paradosso di un “amore a distanza” o addirittura di una “intimità globale”, in cui la famiglia smarrisce la relazione specifica “faccia a faccia” tra i suoi membri, la loro presenza personale legata a un luogo: si perde la dimora comune e si impostano rapporti mantenuti a livello soprattutto virtuale. Delocalizzate e virtuali nelle relazioni più intime, le nuove forme di familiarità diventano instabili, precarie e provvisorie, lasciando l’individuo sempre più solo. Parallelamente, anche sul piano giuridico si dovrebbe fare spazio a un pluralismo di modelli di famiglia, adattando le leggi a un cambiamento sociale che viene propagandato da potenti lobbies come espressione di una concezione della sessualità e della convivenza più rispettosa dei supposti nuovi diritti dell’individuo e finalmente sganciata da retrograde influenze religiose. La democratizzazione su vasta scala dei rapporti interpersonali implicherebbe una radicale ristrutturazione anche di quella sfera finora relegata al privato e così in qualche modo rispettata. Le riforme legislative del diritto di famiglia attuate o in via di attuazione in alcuni Paesi europei, come Spagna, Gran Bretagna e Francia, suppongono un radicale cambiamento di linguaggio con l’eliminazione dei termini “padre”, “madre”, “figlio”, “figlia”, “coniuge”, e quindi “fratello” e “sorella”. Ciò è portatore di una trasformazione antropologica di gravità immensa e difficilmente misurabile. Cesserebbero di essere significativi proprio quei legami familiari che costituiscono da sempre il riferimento per la propria identità e di cui i cognomi portano il segno, come patronimici che legano a una famiglia stabile fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna e collegata a una stirpe. La recentissima legge sull’equiparazione tra i figli “legittimi” e “figli naturali”, approvata a fine novembre 2012 dal parlamento italiano, in nome del sacrosanto diritto all’uguaglianza dei figli, elimina però la familiarità fondata sul matrimonio a favore di una relazione meramente biologica. La retorica dei diritti individuali, specialmente dei “nuovi diritti”, non vede più i legami familiari, deve semplicemente “liquidarli”. “Liquidate” le relazioni familiari basate sull’alleanza stabile e pubblica di un matrimonio, ci si trova di fronte a un’identità umana che non si radica in un’appartenenza: identità puramente individualistica, definibile solo biologicamente o persino, ridefinibile a piacere o secondo arbitrio. Senza legami e appartenenze forti, senza famiglia, l’uomo è più ampiamente manipolabile. L’intima connessione tra questione della famiglia e questione sociale è drammaticamente documentata dalla crisi demografica che l’Occidente, ma in maniera particolarmente acuta proprio l’Italia, si trova a fronteggiare. Essa si qualifica non solo come declino della natalità, ma anche come dissipazione del capitale sociale tradizionalmente assicurato alla società della famiglia. Se la famiglia è all’epicentro della crisi demografica, essa è anche allo stesso tempo la risorsa fondamentale per una ripresa. Occorre però ripartire dall’idea adeguata di famiglia, recuperando coscienza del carattere relazionale intrinseco della persona e del valore della famiglia stessa come insostituibile oggetto generatore di quel “capitale sociale”. Quello della famiglia, basata sul matrimonio stabile di un uomo e di una donna, non è dunque un tema settoriale o confessionale, ma una questione pubblica decisiva per il bene comune della società. La famiglia, infatti, custodisce l’esperienza e la sapienza per cui il bene dell’altro non è concepito in concorrenza con il proprio bene, come se si trattasse di un inevitabile conflitto di interessi. Il rapporto di generosità tra i genitori e figli è un esempio di questo. Il rapporto con l’altro e la sua crescita non si considerano in opposizione al proprio profitto e sviluppo. Per questo il dono non è mancanza di interesse, ma al contrario: è radicalmente interessato al rapporto, all’altra persona e alla sua crescita. La famiglia diventa così – come si è visto – un’entità generatrice di capitale sociale, perché è qui che si capisce e si sperimenta l’idea primordiale del dono nel suo rapporto intrinseco con l’interesse.
Scrivi commento