Molti europei si chiedono perplessi che cosa pensi dell’Europa il primo papa non europeo. In questi pochi anni di pontificato, Francesco ha messo insistentemente in primo piano la realtà dei poveri ed è critico verso classi dirigenti che coltivano la «cultura dello scarto» e sono responsabili della loro emarginazione.
In molti interventi, Francesco non ha parlato e non parla il linguaggio delle élites. Per molti motivi diversi, insomma, la cultura europea si sente da lui trascurata o poco compresa. Ne scaturisce una diffusa freddezza. Nel suo atteggiamento nei confronti dell’Europa non c’è disinteresse, ma piuttosto prudenza, ispirata dalla consapevolezza di trovarsi di fronte ad una realtà complessa ed importante per la ricchezza della sua storia e per la qualità delle sue risorse. L’insistenza sui poveri, a sua volta, contiene un messaggio implicito ma molto forte per le classi dirigenti, in particolare europee. Lo conferma l’enciclica Laudato si quando afferma che, mentre «i gemiti di sorella terra» e quelli dei poveri ci impongono di occuparci con urgenza del mondo intero come «casa comune», «non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future» (Laudato si, 53). Eppure le sue parole, colgono in profondità nodi e problemi vitali per il futuro dell’Europa e che spesso la cultura europea non ha il coraggio di affrontare. Ma, proprio per questo, intorno al papa argentino si innalza un muro di incomprensione e di diffidenza, seppure interrotto da larghe brecce. È una resistenza che non riguarda solo i non cattolici ma anche i cattolici, non solo i laici ma anche gli ecclesiastici. Spesso, anzi, proviene più dai secondi che dai primi. La sua concretezza evangelica ha mostrato di saper perforare le barriere dell’ipocrisia, dell’abitudine e della rassegnazione. Non è causale che la sua forte esortazione a salvare ed accogliere profughi e migranti abbia sfidato efficacemente un opinione pubblica contraria, anticipando le scelte di importanti governi europei, compresa quella italiana di soccorrere quanti sfidano la morte nel Mediterraneo e quella tedesca di accettare i profughi del Medio Oriente. La chiarezza delle sue posizioni impedisce di affrontare il problema del rapporto tra il papa argentino e la realtà europea senza prendere posizione. Il pontificato di papa Francesco avrà un posto di rilievo nella storia. È invece tutt’altro che chiaro se i contemporanei europei di papa Francesco sapranno essere all’altezza di questo pontificato. Il problema, in altre parole, non riguarda lui ma noi. La cultura dell’incontro presuppone un’ampia lettura del mondo contemporaneo del fenomeno della globalizzazione e delle trasformazioni della post-modernità. Contro il ritorno delle ideologie il papa indica la strada dell’incontro con il povero, quale chiave di un’antropologia capace di liberare gli uomini e le donne contemporanei dallo smarrimento della post-modernità e di favorire un ritorno alla storia inteso come promozione di grandi processi collettivi (Discorso ai partecipanti al congresso internazionale della pastorale delle grandi città, 27 Novembre 2014). Il mondo della cultura – ma non solo questo - cerca di respingere o, più spesso, di attenuare, smussare e annacquare la novità di Francesco. Infine, papa Francesco, sottolinea efficacemente il ritorno dell’umano nel cuore della Chiesa e del suo messaggio e mette a fuoco la forza innovatrice della misericordia quale chiave esplicativa di una giustizia diversa, quella di chi muore «giusto per gli ingiusti». Il Papa ha una sua grande capacità di comunicare con gli uomini e le donne del mondo globalizzato, ma ciò gli sarebbe impossibile senza una robusta comprensione a riferimenti antropologici, storici e morali decisivi nel nostro tempo. Il suo messaggio interagisce in modo diretto con i tentativi della cultura europea di comprendere il mondo contemporaneo e, ancor più, con le sfide che il mondo pone all’Europa e con cui questa tarda a misurarsi. Apparentemente provocatorio nei confronti di un’Europa che spesso si compiace della sua stanchezza e che rifiuta di guardare al futuro, in realtà Francesco rilancia l’universalismo che ispira in radice la cultura europea, ma a cui molti europei sembrano aver rinunciato. Questo papa argentino ama l’Europa più di tanti europei e le sue parole comunicano una novità anche culturale che manca a molti intellettuali europei. Anche i cristiani non sono estranei alla «stanchezza» del Vecchio continente. La sfida di Francesco, perciò, riguarda anche loro e, anzi, presenta per loro valenze ancora più profonde. Mette infatti in discussione convinzioni e abitudini consolidate, compreso un senso di possesso tranquillo di un’eredità ricevuta prima e in misura più abbondante rispetto a molti popoli non europei. Francesco riconosce che, in un altro tempo, la Chiesa «ha avuto la responsabilità di delineare e di imporre non solo le forme culturali, ma anche i valori, e più profondamente di tracciare l’immaginario personale e collettivo». Ciò si è realizzato in Europa in modo più ampio e più profondo che altrove, ma, aggiunge, che oggi quell’epoca è definitivamente «passata. Non siamo più nella cristianità». Non è facile, per i cattolici europei, accettarlo e ancor meno accogliere la novità evangelica di cui Francesco è portatore. Ma anche il futuro delle Chiese europee passa per la loro trasformazione in «Chiese in uscita» e in «ospedali da campo». I programmi pastorali e gli orientamenti sulle questioni morali, i rapporti con la società e l’impegno sul terreno civile della Chiesa italiana non possono più restare gli stessi, ignorando la novità di questo pontificato. Per il cattolicesimo italiano, non è tempo di calcolate mediazioni o di misurati equilibri, ma di aperture radicali e di scelte nette di impegno generoso e di sguardo verso il futuro. È un esigenza che si estende anche al terreno culturale. L’opzione preferenziale per i poveri rappresenta in questo senso uno snodo cruciale. Tale opzione non riguarda solo le responsabilità sociali o politiche dei credenti. Non si tratta – per fare un esempio – solo di accogliere profughi e migranti ma anche di costruire una chiesa plasmata da tale accoglienza. Come ha chiarito infatti Francesco nell’ Evangelii gaudium, l’opzione preferenziale per i poveri è rilevante anche sotto il profilo ecclesiale e teologico. Le sue ricadute inoltre sono anche storiche, antropologiche, giuridiche, economiche e molto altro. Un cristianesimo che pratica e comunica l’umanesimo dell’incontro, modellato non su un’assistenza senza dialogo, ma sull’apertura all’insegnamento – umano, storico, religioso – di cui i poveri sono portatori. Dopo aver privilegiato per tanto tempo una cultura della cristianità, organica e gerarchica, sistematica e deduttiva, funzionale ad “occupare spazi” piuttosto che a “promuovere processi”, è tempo di una cultura che parte dal “basso” e che proviene dalle “periferie”, dove il Vangelo sta avviando movimenti destinati a coinvolgere tutti, compreso coloro che stanno al “vertice” e che vivono al “centro”. Anche se ancora non lo sa, l’Europa non ha oggi bisogno di un ritorno, peraltro impossibile, del suo passato laico o religioso: ha bisogno, invece di immergersi nuovamente nel movimento della storia da cui troppo spesso sembra aver preso tristemente congedo.
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 4 Luglio 2016
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