«Francesco d'Assisi si definisce ignorans et idiota nell'epistola inviata a tutto il suo ordine verso il 1224-1225 (EpOrd 39) e ripete di ritenersi idiota nel Testamentum del 1226 (Test 19), pochi giorni prima della morte.
I due termini ricorrono in un contesto altamente spirituale: nell'epistola, all'interno di una confessione di Francesco per le sue mancanze rispetto alla Regola, nel Testamento per definire la sua condizione, assieme a quella dei primi compagni, di uomo soggetto a tutti, anche intellettualmente. Con i due termini egli vuole affermare di non essere un uomo di cultura (idiota), poiché non ha una grande istruzione (ignorans), e insieme manifestare l'umiltà intellettuale della sua scelta spirituale. Ma questo non vuol dire, come un tempo si riteneva, che Francesco fosse un analfabeta o un semialfabeta; egli aveva una cultura di base che non si direbbe minima, sapeva scrivere e far di conto. Su questa base, dopo la sua conversione, egli si era costruita una propria cultura, ottenuta mediante l'ascolto forse più che la lettura diretta. L'ascolto della Messa e di altre funzioni liturgiche e la lettura dell'Ufficio divino, come la Regola imponeva (RegB 3,2), gli avevano permesso di stabilire un contatto frequente con la Bibbia, e in particolare con i Vangeli. Direttamente e/o attraverso la liturgia e la predicazione, la Bibbia diventò il centro del suo modo di esprimersi, sia nel parlare sia nello scrivere; essa divenne sempre più la forma cui si ispirava il suo modo di vivere (il vivere secundum formam sancti Evangelii, Test 14), e lo strumento di espressione di questa vita» (C. Leonardi, La letteratura francescana, I, Francesco e Chiara d'Assisi, Milano 2009, pp. LI-LII). «Il testo più conosciuto di Francesco è il Canticum fratris solis. Accanto al Cantico, che è degli ultimi tempi (1225-1226), sono attribuiti a lui ventinove testi, due in volgare italiano (oltre al Cantico, una preghiera e un'esortazione alle suore di San Damiano), tutti gli altri in latino. «Francesco non è certo uno scrittore di professione, non ha un'autocoscienza di autore, ma ha un'acutissima autocoscienza del messaggio che le sue parole trasmettono. Sa che quando scrive non può che esprimere ciò che vive, e in questo è, in senso moderno, un grande scrittore; quando scrive, tuttavia, appare come “espropriato di sé stesso”, privo di una coscienza letteraria perché privo di autocoscienza umana, come è la condizione del mistico» (P. G. Schmidt, Perché tanti anonimi nel Medioevo? Il problema della personalità dell'autore nella filologia mediolatina, "Filologia mediolatina", 6-7 (1999-2000), p.6). «La scrittura di Francesco, penetra quasi sempre le sue radici nella Bibbia, che, direttamente e indirettamente, costituisce la radice più profonda della sua esperienza cristiana. Inserendosi nella tradizione più viva della Chiesa, il modo con cui Francesco si accosta al testo sacro rivela una tensione verso l'attualizzazione della Scrittura e il suo rinascere nella vita che segna una reale novità; è da questo incontro con la Parola di Dio che scaturisce in Francesco la capacità di cogliere il messaggio nella sua essenzialità» (G. Benedetti, Presentazione in AA. VV., Parola di Dio e Francesco d'Assisi, Città di Castello,1982, p. 9). «Va considerato però che la figura di Francesco è legata al suo tempo, nel quale pienamente si comprende. Per capire l'incidenza della Bibbia nella società del XIII secolo, è sufficiente ricordare che la Scrittura (specie il Libro dei Salmi), anche ad Assisi, era il libro di testo su cui i ragazzi imparavano a leggere ed a scrivere e, man mano, compivano gli studi superiori. La conversione di Francesco in rapporto alla Scrittura consiste nel passaggio da una concezione della Scrittura come libro di cultura ad una concezione della Scrittura come libro di vita: si tratta di un approccio culturale tale da condizionare, nel senso di Francesco, l'approccio che le comunità cristiane avranno con la Scrittura» (T. Matura, Il progetto evangelico di Francesco di Assisi oggi, Assisi, 1982, pp. 44-57). «In linea generale si può dire – anche riferendosi al dettato del Testamentum - che Francesco sta davanti alla Parola di Dio allo stesso modo in cui sta davanti all'Eucaristia; e che egli amministra la Parola del Signore, come (da diacono quale ad un certo punto fu) amministra l'Eucaristia. Al centro di questa impostazione c'è un'unica motivazione: Francesco ha della Parola di Dio una concezione strettamente sacramentale. Come nell'Eucaristia, così anche nella Parola c'è la presenza viva del Cristo vivo. Per Francesco i luoghi della presenza reale di Cristo sono due: il Vangelo e l'Eucaristia. Per lui, in questo senso, ricorrere al Signore, significava ricorrere alla Parola di Dio, che era contemporaneamente segno corporeo della Persona di Gesù (come l'incarnazione e l'Eucaristia) e realizzazione della presenza di Gesù» (R. Bartolini, Il valore sacramentale della Parola di Dio in AA. VV., Parola di Dio e Francesco d'Assisi, Città di Castello 1982, pp. 253-255). «Solo quando l'uomo, nelle avversità e nella solitudine, riceve dallo Spirito la capacità di sopportare ogni male per amore di Dio, allora è davvero trasformato nel Cristo innocente e obbediente sulla croce e può sperimentare la gioia indicibile della sua trasformazione nella divino-umanità» (C. Leonardi, La letteratura francescana, vol. II, Le vite antiche di san Francesco, Milano 2009, p. 615).
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 03 Ottobre 2016
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