Apparenza e visibilità, eccesso, corporeità, tecnologia, divertimento, rimozione della morte: sono alcuni dei fenomeni che determinano le esistenze di tante persone e che trovano fertile terreno per attecchire soprattutto nelle vite più giovani. Il danno più grave è la vita autentica.
Quante sofferenze, più o meno evidenti, hanno le radici nell’odierna cultura, cioè nel modo in cui le persone “coltivano” la propria esistenza! Dall’abbondanza delle proibizioni, tipiche del passato, è seguito un eccesso di possibilità. La persona viene ridotta alla sua corporeità. La salute diventa salutismo, la bellezza e la “forma” costituiscono la nuova “religione del corpo”. Manfred Lütz, psichiatra e teologo, evidenzia il passaggio dalle tradizionali processioni religiose alle visite in processione dal medico, ai pellegrinaggi dallo specialista. Le palestre propongono rinunce e mortificazioni un tempo riservate all’ascesi monastica. La morte è il nemico mortale di questa religione della salute. Per evitare la morte, si corre per strada, nei boschi, si mangiano granaglie e peggio... «per arrivare a morire lo stesso, purtroppo». Se ieri il tabù era il sesso, oggi lo è la morte. Il benessere economico e la scienza, che hanno messo le mani sulla vita, hanno di fatto cambiato l’esistenza. Oggi viene valorizzato il corpo nato da nessuno, che appartiene solo all’immagine che egli stesso si è costruito. Animali clonati, concepimento in vitro, banche di organi e terapie genetiche, protesi intelligenti: è iniziata una rivoluzione verso l’immortalità. La rimozione della morte dissimula la volontà di onnipotenza e fa della vita una commedia. La cultura attuale si presenta come l’offerta del “di tutto, di più”, senza alcun limite. Ne nasce un modo di “coltivarsi” che ha il suo punto di riferimento nella moda, nell’eccesso e nel trasformismo (cioè nel vivere, a frammenti, più esistenze in una sola). Oggi, per sentirsi arrivati e non “esuberi”, bisogna apparire. Se non si emerge, anche in modo volgare, tracotante o insulso, non si è nessuno. Da una crescente “vetrinizzazione” scaturisce un costume contagioso per “narcisi”, che si riconoscono solo nella propria immagine. Essi non cercano la loro unicità, ma la pubblicità che costruisce la propria immagine. Aveva pronosticato Jules Renard: «Per avere successo bisogna aggiungere acqua al proprio vino, finché non c’è più vino». Nasce l’individuo “capomastro”, la cui parola d’ordine è: «Lo devi a te stesso... Sbrigatela come vuoi, ma sii felice!». La responsabilità delle scelte dal campo etico e morale si sposta nella sfera dell’autorealizzazione. Recita Woody Allen: «Come sarei felice se non dovessi essere più felice!». Aggiunge papa Francesco: «Tante volte il nostro cuore sembra un mercato rionale dove trovi di tutto. È come una strada dove passano proprio tutti». Dal computer al cellulare, dal fast food all’alta velocità: tutto è oggi sotto il segno della “fretta”. Più aumenta il ritmo della vita, più diminuisce il tempo per sé e per il prossimo. Oggi conta la velocità, non la durata. Bisogna modernizzarsi e avere l’ultima “novità” per non essere considerati “fuori dal giro” e non al passo con la modernità. Nell’epoca della connessione facile vengono amputate le due estremità, il passato e il futuro. La velocità non favorisce né la pazienza né la perseveranza; si sviluppa così una cultura dell’adesso e della fretta. La parola d’ordine oggi sembra essere una sola: divertirsi! Il piacere è diventato ormai un dovere e ci si è un po’ tutti trasformati in “forzati del divertimento”. La società del divertimento è un’industria vera e propria, il vero paese dei balocchi che porta i suoi figli all’eccesso. Il giorno del Signore è diventato weekend, l’“esodo” è la fuga dalle città, il riposo notturno è sinonimo di sballo e di trasgressione. I bisogni diventano imperativi. La mancanza di misura porta a una nuova dipendenza: l’assenza della moderazione, così che, ai tanti che vogliono divertirsi, è sparito il sorriso. La novità di papa Francesco si situa a questo livello, quando insiste sulla cultura dell’incontro, che non si riduce a qualche abbraccio caloroso (di cui è capace), ma che deve iscriversi nella pastorale ordinaria della Chiesa. Nell’intervista a Civiltà Cattolica: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo o gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite... E bisogna cominciare dal basso» (19 settembre 2013). Oggi più che mai abbiamo bisogno di capire che la speranza è possibile anche dentro le incertezze e le violenze della nostra società e del nostro mondo. Perché, come scrive Paolo nella lettera ai Romani, «sperare quello che non vediamo» significa «tendere con perseveranza» (Rm 8,25). Non possiamo rinunciare a questa virtù che implica sia il rifiuto della rassegnazione, sia un combattimento contro le paure che ci minacciano e un lavoro di discernimento per riconoscere i segni del Regno dentro la nostra storia violenta e complessa. Se esiste una differenza cristiana, è qui. Siamo chiamati a lottare in noi stessi e con gli altri che non praticano la nostra fede, perché, proprio al centro di quello che ci destabilizza, non smettiamo di credere che agisce un’altra logica, differente da quella della violenza e della paura.
di Don Salvatore Rinaldi
Articolo pubblicato su “Primo Piano” di lunedì 20 Febbraio 2017
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