“C’è qualche speranza?”, “Quando tempo mi resta?”, “Quale sarà il mio futuro?”: sono alcune domande che il malato fa e si fa.
Una delle esperienze più comuni in chi vive un forte dolore o una malattia grave è quella di perdere il controllo del proprio futuro e degli obiettivi che strutturano la propria storia e danno senso alla vita, ma anche la possibilità di riscoprire un significato dentro la malattia se ritrova la voglia di ristrutturare il suo futuro tenendo conto della situazione che si sta vivendo. Molte ricerche confermano che la migliore relazione terapeutica, e la miglior comunicazione, è quella che sa dare al malato speranza, non tanto con parole falsamente consolatorie, ma facendogli scoprire o ri-scoprire la possibilità di un controllo – anche parziale – della situazione. Verità e speranza possono convivere. Nell’esperienza del dolore e della malattia la speranza, come capacità di proiettarsi nel futuro e di affidarsi, entra in crisi. Ci si sente improvvisamente soli e disperati. Quando il dolore è grande l’orizzonte della speranza si trasforma nel desiderio di soluzione immediata, che può essere solo soddisfatto o deluso. Il malato sente di perdere il controllo del suo corpo, della sua mente, delle sue relazioni, della situazione che sta vivendo e della sua stessa vita. Gli altri, e anche Dio, possono apparire improvvisamente lontani, impotenti a fare qualcosa. La tentazione è disperarsi, mollare tutto, isolarsi e lasciarsi andare. Per arrivare ad accettare la situazione che sta vivendo e tenere aperta la possibilità di un futuro, e alimentare la speranza, la persona che soffre può aver bisogno di negare temporaneamente la realtà angosciante della possibile sconfitta e di delegare ad altri il controllo della situazione. C’è una rottura nel processo di speranza ogni volta che il futuro si chiude o diventa inabitabile. La speranza, anche se radicata nel passato e agita nel presente, riceve la sua energia dal futuro. Un’autentica esistenza include la capacità di accettare il passato, di gioire delle gioie provate e di fare lutto delle perdite subite. Nel cammino della vita anche un momento di sofferenza e di crisi, può essere un’ occasione per lasciarsi raggiungere da compassionevoli compagni di viaggio, consolatori non banali, condividere con loro gioie e dolori. Nelle attività che implicano aiuto e cura ci sono bruciature che non possono essere del tutto evitate. Ma devono essere evitati i sogni di paradisi terrestri utopici, che non stanno in nessun luogo. Siamo prigionieri dell’utopia ogni volta che la nostra speranza sul futuro è fondata solo su noi stessi, sulle nostre forze e su grandiose aspettative. La speranza fondata su una promessa che trascende l’immediato ci impedisce di lasciarci intrappolare dalle delusioni, di rassegnarci di fronte ai nostri fallimenti e di chiuderci egoisticamente in noi stessi. Ci impedisce, però, di delegare ad altri ciò che noi possiamo fare per migliorare almeno qualcosa del mondo in cui viviamo, per fare la nostra piccola ma preziosa parte. Ma per migliorare questo mondo dobbiamo prima, e contemporaneamente, migliorare noi stessi. La persona malata, in particolare nella vicinanza alla morte, ha bisogno di sentire che la sua vita ha un significato perché mantiene un senso di identità, di dignità, di controllo e di connessione relazionale e affettiva con gli altri e con Dio. E resta dentro a una relazione di amore. Nei momenti di massima fragilità e vulnerabilità, nella malattia e in particolare a contatto con la morte, i simboli religiosi diventano particolarmente forti. Il sostegno spirituale si fa importante quando altre forme di sostegno vengono meno: spiegazioni religiose diventano più plausibili quando altre spiegazioni non convincono più. Se c’è una grande speranza proiettata nel futuro ultimo, ci sono piccole speranze legate al futuro più immediato e al presente. «La speranza ha il volto della cura», sono parole di Benedetto XVI. Il Dio della speranza ha il volto dei molti terapeuti, professionisti e volontari, che si prendono cura di chi soffre. La sua consolazione è resa tangibile dal nostro stare accanto. I professionisti sanitari e i volontari sono chiamati non tanto a dare speranza quanto a nutrire e accompagnare la speranza del malato. La narrazione ha un valore terapeutico. Il dolore del malato non è legato solo a ciò che sta vivendo o a ferite che si porta dentro dal passato, ma anche da un futuro che improvvisamente si chiude, da una mancanza di speranza. L’ascolto attento ed empatico della narrazione che il malato fa della sua storia fa parte della cura, collabora alla guarigione, aiuta ad affrontare attivamente la malattia e migliora la qualità della vita. È importante, quindi, prendersi cura della speranza del malato e della sua famiglia ma anche della speranza di coloro che si impegnano, quotidianamente, ad aiutare e curare.
Don Salvatore Rinaldi
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