Vivere in grazia di Dio?

Nell’ideologia del “mercato globale” tutto rischia di essere mercantilizzato e valutato secondo i criteri del mercato: tutto diventa merce che ha un prezzo, tutto rischia di essere sottomesso alle logiche del profitto, comprese le relazioni umane. 

In questa nostra cultura, perciò diventa oltremodo difficile parlare di “grazia” per descrivere l’esistenza cristiana, anzi per molti questo linguaggio è del tutto estraneo e incomprensibile. Paolo chiama “grazia” (di Dio) l’adesso della sua esistenza cristiana, che egli ha percepito come irruzione del tutto gratuita di Dio nella sua esistenza precedente, e che l’ha cambiata in maniera radicale. In che cosa consiste essenzialmente questa esistenza nuova? Paolo sembra concepire la “grazia” innanzitutto come una presenza divina nella sua esistenza, concessa per pura misericordia, e che ha l’effetto di guarire la volontà ferita, la trasforma dal male al bene, le dona bellezza e forza: in breve, la grazia è un dono immeritato a cui l’uomo non ha alcun diritto e che dunque non può pretendere. La grazia di Dio lo rende “giusto”, lo libera da schiavitù  che disumanizzano, lo libera soprattutto dall’autosufficienza egocentrica che rende schiavi, e in definitiva permette una nuova esistenza nell’amore. Vivere in grazia di Dio non si riduce quindi a una condizione statica in cui ci si debba preoccupare soltanto di non frantumare qualcosa. È piuttosto un “vivere per”, è un progetto di vita, lo sforzo di discernere la parola di Dio nella complessità delle situazioni dell’esistenza. È ravvedimento dagli errori e tentativo sempre nuovo di costruire rapporti rappacificati con gli altri. È dedizione e impegno, cura di chi è debole. Si intravede qui la dimensione comunitaria perché la vita “in grazia di Dio” distoglie dalla concentrazione su di sé anche se questa fosse finalizzata all’esame della propria coscienza, perché proprio la grazia apre lo spazio oltre se stessi. Tornando alle esperienze quotidiane in cui si dice di godere di uno stato di grazia perché si stanno ottenendo eccellenti risultati, ricavando da questo entusiasmo e soddisfazione, vivere in grazia di Dio può avere lo stesso esito: una vita propositiva, soddisfatta nel compiere il bene. Anche questa è felicità. Cos’è, infatti, la grazia nell’ambito della fede se non l’amore gratuito di Dio verso l’umana creatura? E dove questo amore ha assunto la sua massima manifestazione se non nella carne di Gesù? «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi… pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). La grazia non è una “cosa”, ma una persona, una relazione di comunione. Tutto il Vangelo è una teologia dell’incontro. La grazia di Dio, la sua salvezza, passa attraverso l’incontro con l’uomo di Nazaret, con il Signore Gesù. I pastori, i magi, ciechi, zoppi, paralitici, peccatori ricevono la grazia della salvezza incontrando Gesù, sacramento primordiale dell’incontro con Dio. Ciò che potrebbe sembrare esclusivo è invece inclusivo poiché Dio, in Cristo, ha fatto della natura umana la sua abitazione, la vera tenda dell’incontro con il suo popolo, il luogo santo dove si compie l’unico vero culto gradito a Dio (cfr. Eb 8,2; 9,11). Dio, in questa vita terrena, non lo si incontra uscendo dal proprio corpo, dalla realtà umana, ma attraverso la materialità di tutte le umane relazioni. Non è fuggendo dal mondo, ma inserendoci profondamente in esso che incontriamo il Signore. Il battesimo non è forse “immersione” nella morte di Cristo, cioè nella sua realtà umana per poter anche risorgere con lui (cfr. Rm 6,3-5)? Il vero discepolo di Gesù non è una persona che ha gli occhi sempre rivolti al cielo, ma normalmente all’altezza dell’uomo. Il Cristo risorto è veramente e «sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC 7). Cioè nella materialità dei segni  che costituiscono la celebrazione liturgica. Infatti, Dio «sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, ha contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile agli uomini» (DV 13). È nota affermazione di J.-P. Sartre; «L’enfer, c’est les autres». Nella visione cristiana, invece, gli altri sono la via obbligata per arrivare a Dio. Se è vero che gli altri possono diventare causa di sofferenza, è altrettanto vero che gli altri costituiscono la ragione della nostra vita. «Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi». Non si può vivere senza relazioni affettive; la vita, infatti, ci è stata data per essere donata. Il nostro rapporto con il Signore sarà misurato attraverso il rapporto che avremo saputo instaurare con gli altri. «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La grazia della salvezza ci raggiunge attraverso gli altri. E se gli altri costituiscono una croce, la nostra vita sarà ancora più conforme a quella del Cristo crocifisso. Dalla croce sgorga una salvezza ancora più grande. È vero che «tutti siamo utili e nessuno è indispensabile», ma è altrettanto vero che ciascuno di noi è insostituibile. Nessuno c’è mai stato e mai ci sarà più identico a noi. Ciascuno di noi è un “pezzo unico”, che ha un compito unico nel grande mosaico della storia umana. La nostra vita, il nostro corpo è lo strumento unico e irripetibile che il Signore ci ha dato per portare a termine un progetto unico e irripetibile. Un corpo fragile e precario, strumento di eroismi e di viltà, di santità e di peccato… ma è proprio questo corpo il luogo dell’incontro con la grazia di Dio, come riconosce paradossalmente l’apostolo Paolo: «Mi vanterò volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio ben volentieri delle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (1 Cor 12, 9-10). Sì, anche la nostra fragilità, persino il nostro peccato quando è riconosciuto come tale, sono una grazia perché ci permettono di sperimentare la misericordia di Dio e ci rendono capaci di essere con umiltà misericordiosi verso i nostri fratelli. Condizione indispensabile per entrare nel regno di Dio (cfr. Mt 6,14; 7,1-2).

 

di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 16 Luglio 2018

Rubrica "Fede e Società"

 

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