Nell’attuale contesto socio-culturale la separazione e il divorzio stanno assumendo le forme di una vera e propria emergenza sociale; sono fenomeni che non possono essere minimizzati o trascurati ma su cui c’è urgenza di porre particolare attenzione. Ciò a cui stiamo assistendo è il diffondersi del divorzio e la semplicità ad accedervi.
Si pensi, in tal senso, ai recenti interventi legislativi (D.L. n. 132 del 12 settembre 2014, convertito in L. n. 162 del 10 novembre 2014 recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”; L. n. 55 del 6 maggio 2015: “Disposizione in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi”). Essi riducono certamente i tempi e le pratiche burocratiche, ma allo stesso modo veicolano una rappresentazione delle relazioni coniugali e familiari all’insegna della precarietà. La conseguenza è la “normalizzazione del fenomeno” implica sempre una rottura: di equilibri, legami, affetti, abitudini. La rottura è anche cambiamento, che può essere catastrofico perché distrugge, talvolta violentemente, precedenti certezze e determina disorientamento, ansia o dolore per la perdita subita. In tal senso, si può asserire che il divorzio, indipendentemente che sia stato voluto o subìto, consensuale o giudiziale, conflittuale o collaborativo, è fattore di sofferenza. Una sofferenza che è diversa per ogni persona e per ogni storia, in quanto profondamente soggettiva, ma che, di solito, scaturisce dalla fine del proprio progetto o patto coniugale. Nel divorzio, infatti, i coniugi sperimentano la sofferenza legata all’infrangersi del proprio progetto coniugale. Un progetto che era stato costruito per durare tutta la vita e che, invece, è crollato, provocando smarrimento e insicurezza. Il progetto coniugale è costituito da un patto dichiarato, l’impegno reciproco, e da un patto segreto, inconsapevole, fondato sui bisogni, speranze e paure. Quando il patto viene meno si infrange il legame tra due componenti, cessa l’impegno e la vicinanza affettiva. Il progetto non c’è più. Manca la prospettiva sul futuro. La sofferenza deriva anche dalla consapevolezza di aver infranto un patto sacro. Sacro, non in ordine alla sua componente religiosa, ma in riferimento al fatto che i due coniugi immaginavano che il proprio progetto coniugale fosse stabile e duraturo. Pertanto, mettere fine al matrimonio vuol dire profanare il sacro, violare un patto, e ciò arreca inevitabilmente sofferenza. La nostra è una società “analgesica”, in cui il dolore viene emarginato o occultato, effettuando, da un lato, una scongiura e, dall’altro, una rimozione del tema. Di rado, invece, ci si interroga sulla sofferenza o ci si fa interrogare da essa (Cfr. L. Cadei, Narrare il dolore: accompagnare le parole del dolore, in “La famiglia”, 51/261 (2017), pp. 83-88). C’è pertanto necessità di riflettere sul senso della vita, la quale si caratterizza per una intrinseca fragilità, di cui il dolore è espressione emblematica. In tal senso, significativa è la seguente espressione di S. Natoli: «L’uomo contemporaneo conosce tutto questo, percepisce il rumore di fondo della sofferenza, anche se essa è tolta dalla scena ed è occultata. La sofferenza trapela e forza la congiura del silenzio che le molteplici, civili e costruttive attività del giorno coprono con il loro rumore produttivo e fecondo» (S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano1999 p.70). Il dolore e la sofferenza, quindi, fanno ontologicamente parte della nostra natura, non possono essere eliminati, banalizzati, rimossi. Vanno, invece, riconosciuti e accettati, nella consapevolezza che in essi si possono rintracciare nuove opportunità per riprendere il cammino della vita. Come poter far fronte a questa situazione? Quali possono essere i compiti dei due ex coniugi? In linea generale, possiamo asserire che i due ex coniugi sono chiamati ad imparare a convivere con la situazione di sofferenza che accompagna il fallimento del proprio progetto. Quindi, il primo compito a cui sono chiamati è quello della presa di consapevolezza della situazione. In linea particolare, è opportuno notare che vi sono alcune scorciatoie per uscire dalla situazione di dolore: si pensi all’attribuzione di colpa all’altro o alla sua negazione. Tuttavia, per poter superare il dolore, è necessario imparare a so-stare in esso. Si tratta non di un so-stare in modo passivo, bensì di ricercare nella sofferenza un’occasione di modificazione di sé, delle proprie prospettive esistenziali. Quello che si configura è un apprendimento trasformativo, in cui la sofferenza diventa sollecitazione ad apprendere “il mestiere di vivere” (Cfr. J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, tr. It., Cortina, Milano 2003). Dopo il divorzio è opportuno che i due coniugi assolvano un altro importante compito: lavorare sul proprio sé, sulla propria identità, vedendosi e riconoscendosi come uomo e donna divorziati, non più come marito e moglie. Questo compito risulta ancora più difficile nei casi in cui il matrimonio sia durato molto tempo: in queste situazioni è ancora più complesso distinguere la propria identità individuale da quella coniugale. È importante considerare che il divorzio mette in crisi la rappresentazione del proprio sé tanto più fortemente quanto più strettamente i ruoli e le identità connesse a tali ruoli sono state ancorate alla vita coniugale. Orbene, con la separazione, viene a mancare quella parte di sé consegnata all’altro, costruita nell’incontro con l’altro. «Il divorzio è come un terremoto emotivo che scuote le fondamenta dell’edificio della nostra identità e della nostra autostima» (P. Martinez, Inseguendo l’arcobaleno. Oltre il dolore, il lutto, la separazione, tr. It. Edizioni GBU, Chieti 2014, p. 143). I due ex coniugi sperimentano anche una situazione di isolamento, da cui spesso fanno fatica ad uscire, perché vengono meno i punti fermi della propria identità esistenziale. Importante, allora, è sviluppare relazioni con amici, colleghi e conoscenti, a significare l’urgenza di affrontare l’isolamento. Esso, infatti, è considerato uno degli effetti sociali del divorzio. Niente e nessuno sembra essere lo stesso di prima. È come iniziare a vivere di nuovo, questa volta da soli. Un altro importante compito è quello legato alla genitorialità. La responsabilità principale di due genitori, anche e specialmente durante il divorzio, rimane quella di fare i genitori: permangono i loro molteplici obblighi. Ciò implica, però, trasformare e riformulare i rapporti educativi: non è pensabile riproporre le modalità relazionali utilizzate fino ad ora.
di don Salvatore Rinaldi
Articolo di lunedì 1 Ottobre 2018
Rubrica "Fede e Società"
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