Nel corso del tempo, la società, i modelli educativi e i miti affettivi famigliari sono profondamente cambiati. La famiglia affettiva ha sostituito quella normativa, il soggetto narcisistico è subentrato a quello edipico e il peso della vergogna e della mortificazione sociale ha preso il posto del senso di colpa. L’adolescente, con l’arrivo della pubertà, acquisisce nuove spoglie che, oltre a rivoluzionarie dotazioni, portano con sé la rivelazione di una grande verità: il corpo è finito, limitato e mortale.
Si tratta di una scoperta importante e ricca di conseguenze per la relazione che si sviluppa con il progetto futuro, il senso della vita e la finitezza della propria corporeità. È nel momento di massimo splendore, all’apice della crescita, che paradossalmente si scoprono la vecchiaia, la malattia e la morte. La mente dell’adolescente entra inevitabilmente in contatto con il più spiegato degli esami di realtà. I ragazzi hanno timore del futuro e sfidano la morte. Il loro tentativo di ricercare emozioni forti, sino a provare paura, è un modo di duellare con il limite e di avere un controllo attivo sulla dipartita. La ricerca di popolarità da parte dei ragazzi odierni si inquadra in una società nella quale anche gli adulti attribuiscono sempre più importanza all’esserci, all’apparire, all’avere successo. In questo contesto, il selfie non è più vissuto come un autoscatto, ma come una narrazione, in tempo reale, della vita del protagonista, rivolta a una sconfinata platea di destinatari. Esso si colloca all’interno di un cambiamento più generale della funzione creativa. Per l’adolescente odierno, spinto sin dall’infanzia a cercare la strada per esprimere il proprio talento, l’attività espressiva ha a che vedere con la ricerca di visibilità e valorizzazione. L’esplosione dei selfie, in tal senso, rivela la paura di non essere visti e di venire dimenticati; lo sguardo di ritorno del pubblico di amici lenisce il dolore, infondendo la speranza di poter essere rispecchiati e ammirati. I coetanei diventano i destinatari privilegiati. In nome dell’appartenenza gruppale, si allinea il proprio comportamento alle leggi implicite e sottese che regnano nel mondo dei pari. Quella odierna è una generazione di figli unici, bambini socializzati fin da subito, con l’imperativo di avere tanti amici per scongiurare il rischio di sperimentare quote di noia e di solitudine. Crescendo, l’adolescente a orientamento narcisistico non si sente mai abbastanza bello e popolare, non è mai all’altezza delle aspettative proprie e altrui. È nei ragazzi più vulnerabili, con importanti difficoltà evolutive e privi di prospettive future, che si fa strada la tentazione di gesti forti, di azioni eclatanti, dal selfie estremo alle challenge appunto. Nella maggior parte di questi casi è il Sé corporeo ad essere attaccato, in quanto percepito come principale responsabile del proprio dolore psichico. Purtroppo molto spesso alcuni comportamenti degli adolescenti, come nel caso dei selfie e delle sfide estreme, vengono equivocati dagli adulti e dalla società in generale, che tende a interpretarli come gesti trasgressivi e un’ostentata manifestazione di grandiosità. Questa lettura rischia di essere pericolosa nella misura in cui non risulta assolutamente sintonica con la fragilità, il senso di vergogna, la paura di deludere e allo stesso tempo il bisogno di ammirazione dei ragazzi odierni. Divieti e censure sono interventi facili da aggirare che rischiano di far sentire i ragazzi meno compresi, i “grandi” ancora più spaventati e in generale tutti più soli. Le angosce di ruolo degli adulti rendono spesso impotenti dinanzi al dolore. Se in un contesto normativo edipico i giovani non parlavano con i genitori per paura della punizione, oggi tacciono per paura di deludere e fare soffrire. È così che nei ragazzi si fa strada la tentazione di ricercare le risposte al proprio malessere e alle proprie questioni identitarie anche attraverso Internet: un ambiente il cui utilizzo va compreso all’interno dell’ineguagliabile percorso di realizzazione dei compiti evolutivi di ogni singolo ragazzo e ragazza. Però non bisogna dimenticare che la società dell’apparire è stata creata da adulti e ha poi coinvolto anche bambini e ragazzi. Chiedere solo all’adolescente di cambiare quando commette un gesto pericoloso al servizio del bisogno di ammirazione non è una soluzione realistica. Sarebbe auspicabile poter pensare a una controcultura che coinvolga a vario titolo tutta la comunità educante, in modo da essere tutti in grado di meglio comprendere e sostenere il dolore e la complessità della crescita delle generazioni odierne.
di don Salvatore Rinaldi
Articolo di lunedì 8 Giugno 2020
Rubrica "Fede e Società"
Scrivi commento