Per una donna e per un uomo essere fecondi, biologicamente, significa avere la capacità e la possibilità di generare, di riprodursi, di trasmettere la vita. Si tratta di una prerogativa della natura umana, ed è perciò un bene universale, che comporta una legittima aspettativa da parte di ogni coppia umana. Che cosa sarebbe dell’umanità se la fecondità non si perpetrasse!
Eppure, insieme alla sua più naturale realtà, avere un figlio resta sempre e comunque un evento sorprendente, mai scontato, spesso desiderato dall’amore di una coppia, talvolta faticosamente cercato e non sempre con successo. Il bene della maternità e della paternità riveste dunque la caratteristica fondamentale del «dono», di una nuova vita che misteriosamente prende corpo, diviene pian piano completa, destinata all’autonomia fisica, pronta a venire alla luce. Testimoni di questo stupore sono gli occhi incantati dei genitori che contemplano lungamente la loro piccola creatura. Perché di «creatura» si tratta, di un nuovo atto creativo di Dio, cui collaborano - più o meno consapevolmente – un uomo e una donna. Questa, almeno per i credenti, è la semplice ed essenziale percezione della fecondità. Che cosa sarà capitato a Maria e a Giuseppe dinanzi al piccolo Gesù, se non sperimentare l’incontenibile gioia di essere strumenti - così particolari e anomali – di questo stupendo miracolo? La fede cristiana non cessa di adorare, come i pastori e i magi, quella singolare venuta nella carne del Figlio eterno di Dio. Carne destinata ad amare e a gioire, a soffrire e a morire sulla croce. E a risorgere. Dentro questo mistero, ogni creatura è chiamata a esistere: dal suo venire nel mondo al suo entrare nell’eternità. Davanti al giaciglio di Betlemme, ogni fecondità prende nome, ogni vagito ha chi lo riconosce. Il nuovo volto della vita si affaccia al mondo in cerca di occhi che dolcemente lo accolgano. Di braccia forti e tenere che, temendone la fragilità, conoscano il tragitto che va dai baci e le carezze alla terra, ove imparare a poggiare saldamente i piedi e a camminare, lungo una vita intera. Il nuovo volto della vita, talvolta tragicamente negato alla luce, torna a Colui che lo ha voluto. Il nuovo volto della vita, anche il più stranamente procreato, ha un destino di amore eterno cui nessuno potrà strapparlo. Solo uno sguardo misteriosamente illuminato da un amore più grande, che trascendergli umani calcoli, fatti di pretesa e di diritto, di scienza e di tecnica, potrà accogliere, custodire e far crescere la vita donata e ricevuta. E questo, senza nulla togliere all’ingegno che la trasmissione e la cura della vita richiede, all’intelligenza a al cuore di coloro che ne saranno sempre gli inadeguati strumenti. Un padre e una madre sanno che un figlio che nasce non è solamente un regalo per loro, ma lo è anche per il fratello. Gesù è la luce che ci rivela che non siamo al mondo per caso. Ogni uomo, sia esso credente o non credente, è stato pensato insieme, ognuno con un proprio compito e una propria missione, la stessa che ha avuto Cristo Signore. Per questo Gesù dirà ai suoi apostoli: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni […] insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). Spetta alla famiglia e alla Chiesa far conoscere agli uomini che non sono nati per caso. E quando un padre e una madre mettono al mondo un figlio, non lo fanno perché un domani diventi chissà chi, ma perché sia al mondo. Una madre può dire sempre: preparati figlio/a, perché il Signore ha del bene da farti fare. Il figlio ci perpetua perché dilata il nostro spazio e il nostro tempo oltre il nostro esserci e garantisce la nostra carnale immortalità. Proprio perché lo riconosciamo libero, il figlio viene accolto, non prodotto; proprio perché lo riconosciamo persona, il figlio viene desiderato, non preteso. Generare è sempre, in qualche modo, lasciar esistere. «Sono disposto a essere la sua origine?». Si genera una volta, e poi si è madri e padri per sempre, perché una esistenza dipenderà ormai da noi, anche quando noi più non saremo.
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