È l’umano che sta cambiando, e non semplicemente l’abito con cui i ragazzi vestono la loro umanità. I giovani sentono che gli adulti rappresentano un mondo che non può essere il loro e manifestano la loro distanza dicendo sbrigativamente che «sono vecchi!», anche se talvolta questi adulti hanno pochi anni più di loro; gli adulti si rendono conto di non capire atteggiamenti, stili, sensibilità dei più giovani. E la velocità con cui i cambiamenti avvengono fa sì che le generazioni si allontanino sempre di più.
Sembra una situazione senza sbocco, insostenibile per ogni educatore che si ponga con serietà la domanda su come assolvere al suo compito. Eppure uno sbocco c’è: non è una strada facile, ha bisogno di pazienza di umiltà, di spirito di iniziativa: è quella della creativa reinterpretazione del compito educativo, in termini inediti, così come è inedita la situazione odierna. Questi nuovi giovani, così desiderosi di trovare dei punti di riferimento che li sottraggano alla solitudine in cui si sentono, hanno bisogno di nuovi educatori: adulti disposti a cambiare il loro modo di pensare e di vivere l’educazione e la relazione educativa. Sino a circa 30 anni fa, l’educazione è stata caratterizzata da un movimento di comunicazione dalle generazioni più adulte alle nuove generazioni; un’operazione di consegna ai più giovani del patrimonio di conoscenze, di significati, di valori che nel tempo hanno dato forma all’umano, con un dinamismo caratterizzato da un passaggio di mano di questo patrimonio, quasi fosse un tesoro prezioso e immutabile, da conservare, custodire, affidare alle nuove generazioni in un ideale staffetta che di generazione in generazione fa progredire la storia umana e l’esperienza cristiana. Ai più adulti la responsabilità di consegnare, ai più giovani quella di accogliere e custodire ciò che altri prima di loro hanno a loro volta ricevuto. In questo dinamismo vi è il senso di un’autorità: quella dell’esperienza e del già vissuto; vi è la consapevolezza del valore di ciò che si trasmette; nei più giovani la responsabilità di non sperperare il patrimonio ricevuto, ma di custodirlo e di farlo fruttare nella logica dei talenti del Vangelo. L’idea del trasmettere caratterizza soprattutto l’educazione alla fede. Molti punti nevralgici di questo dinamismo oggi sono in crisi, a cominciare dal senso dell’autorità. I giovani di oggi non sono disposti a far proprie convinzioni e stili di vita che non siano passati al vaglio della loro coscienza e del loro spirito critico: non sono disposti ad accordare fiducia e convinzione, regole e criteri di vita che non abbiano fatti loro attraverso un processo complesso di personalizzazione e di discernimento. Per questo non sono nemmeno disposti a riconoscere il valore del patrimonio che si intende consegnare loro solo sulla base dell’autorità di chi glielo dona: vogliono valutare direttamente, rendersi conto, capire se quel dono corrisponde ai loro desideri e all’idea che si vanno facendo sulla vita. Occorrerà allora convincersi che alla trasmissione – dei valori della vita, della fede, dei principi della nostra convivenza civile… - va sostituito un altro processo: quello del generare, del far nascere, dell’accompagnare in un delicato processo, faticoso e pieno di rischi, ma al tempo stesso promettente e ricco. La generazione, a differenza della trasmissione, ha un aspetto di grande coinvolgimento personale: solo la vita genera vita, in un processo che metterà al mondo una persona che un po’ ci assomiglierà, ma dentro ai tratti originali e irripetibili di un’esistenza diversa. L’allontanamento sempre più precoce dalla comunità cristiana da parte dei ragazzi che hanno frequentato gli itinerari dell’iniziazione cristiana sta a indicare quanto fosse illusoria questa idea, che certamente aveva dalla sua molte ragioni nella società del passato, ma che oggi, da sola, non ha efficacia. Quasi inevitabilmente l’adulto che volesse insegnare ai giovani di oggi come vivere da cristiani finirebbe con il dare l’impressione di volerli trattenere in un tempo che non c’è più, e di essere inevitabilmente rifiutato. La strada da percorrere potrebbe essere piuttosto quella del far vedere, della testimonianza. Paolo VI affermava che il nostro tempo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; è diventato uno slogan privo di forza, e invece quell’affermazione conteneva un’intuizione profetica. Non è questione di preferire un percorso ad un altro, quanto piuttosto di comprendere che in un tempo come questo l’unico linguaggio decifrabile e convincente è quello della vita, del mostrare com’è una vita che si incontra con il Vangelo.
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